Le voci del disarmo

Buonasera, Sono Padre Davide Saron, appartengo alla Congregazione San Filippo Neri (Padri della Pace) e vi voglio presentare uno dei nostri fondatori, a cui è dedicata una bellissima sala in questa sede.

Padre Giulio Bevilacqua, ultimo di dieci figli, nasce ad Isola della Scala (Verona) il 14 settembre 1881. Dopo gli studi superiori a Verona e la laurea in sociologia all’università di Lovanio, in Belgio, torna in Italia con il desiderio di consacrarsi a Dio, dedicando tutta la sua vita ad avvicinare l’uomo moderno a Cristo. Si presenta dai Padri Filippini di Brescia chiedendo di poter entrare a far parte della Congregazione. Viene ordinato sacerdote il 13 giugno 1908.

Scoppia la prima guerra mondiale. Quando l’Italia entra in guerra, nel maggio 1915, padre Bevilacqua chiede di partire più volte per il fronte, finché, non senza un certo disappunto dei suoi confratelli, viene arruolato come ufficiale degli Alpini. Egli può essere annoverato tra i tanti cattolici interventisti, che vedevano la guerra come una sorta di strumento per purificare ed elevare l’animo degli italiani.

Nella terribile battaglia dell’Ortigara, dal 19 al 26 giugno 1917, fu fratello e padre del suo battaglione, sempre pronto a consolare e ad incitare, dimostrando grande sprezzo del pericolo, ottenendo due medaglie al valore militare. Nel 1917 la sua Compagnia viene accerchiata dagli austriaci e, dopo una lunga resistenza, fatta prigioniera. Egli viene condotto in Boemia. Se nel ’15 le idee di P. Bevilacqua lo avvicinavano molto a quelle di altri preti “interventisti”, dopo l’esperienza della trincea e della prigionia la sua posizione cambia. Così scrive: “La guerra non cambia niente, non migliora, non redime, non fa miracoli, non paga i debiti, non lava i peccati in questo mondo che non conosce più la grazia. Potessimo dire alla guerra: Ci hai battuto come il ferro e come i venti battono le pareti alpine, ci hai triturati come il grano ma ci hai rinnovati…invece no, l’umanità intera ne esce sconfitta”.

Dopo undici mesi di prigionia, nel 1918 Padre Bevilacqua torna a Brescia portando il ricordo di queste esperienze, tornando a dedicarsi alla sua attività pastorale di sacerdote, specialmente all’educazione dei giovani. Egli prende posizione pubblica nei riguardi dei due principali movimenti politici, venutisi a creare nel dopoguerra: il comunismo ed il fascismo. Del primo dichiara la sostanziale inconsistenza nella basi filosofiche, del secondo riconosce subito la inconciliabilità con i principi cristiani. Nel frattempo viene eletto anche Superiore della sua Congregazione.

Nel 1928, il giorno dell’Epifania, è costretto a lasciare Brescia per sfuggire alla persecuzione degli squadristi fascisti, che tentarono di assaltare l’oratorio della Pace per mettere le mani su di lui, costretto a nascondersi in chiesa per non essere trovato. Tornato a Brescia nel 1933 riprese la sua opera apostolica tra i giovani contribuendo a fare dell’Oratorio della Pace uno dei più importanti centri di apostolato giovanile. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, il cinquantanovenne Padre Bevilacqua decide di nuovo di partire per la guerra, non più per motivi nazionalistici, ma per stare vicino ai “suoi” ragazzi che partivano per il fronte.

Come cappellano della Marina, viene colto dall’armistizio dell’8 Settembre a Venezia e riceve l’ordine di scendere l’Adriatico coi cadetti. La nave si ferma a Brindisi, già occupata dagli alleati ed è proprio lì che, il 14 Ottobre, celebra la Messa davanti a Vittorio Emanuele III, predicando sulla beatitudine evangelica “Beati quelli che piangono”. Nell’omelia Padre Bevilacqua indica al Re la via dell’esilio, sbalordendo i presenti, e ricorda che il Signore innalza gli umili e abbassa i potenti, elargisce e toglie i doni di questa terra.

Ritornato a Brescia nel 1945 viene nuovamente chiamato a ricoprire la carica di Superiore della Congregazione dei Padri Filippini, fin quando a 68 anni si trova ad essere parroco di una nascente parrocchia della periferia di Brescia, quella di S. Antonio in via Chiusure. Memorabile è il discorso da lui tenuto in una Piazza Duomo gremita nel novembre 1956 come reazione all’invasione sovietica di Budapest. “Dov’è tuo fratello?”.

Il 22 agosto 1960 viene nominato membro della Commissione preparatoria liturgica del Concilio Vaticano II.

Durante il Concilio stringe amicizia con Jean Guitton ed ha la gioia di vedere eletto al soglio pontificio il suo amico Card. G. B. Montini, Paolo VI, a lui tanto caro. Il papa lo invita come ospite al suo viaggio in Palestina: la prima volta che un papa tornava nella terra di Gesù.

Il 15 febbraio 1965, nella Chiesa dei Santi Patroni Faustino e Giovita, viene consacrato Vescovo.
Il 22 febbraio riceve la porpora e Paolo VI lo crea Cardinale.

Ormai però é anziano e profondamente minato dal male, un tumore allo stomaco.

Muore il 6 maggio 1965 ed è sepolto nella cripta della sua amata Chiesa della Pace, dove spicca il suo stemma con il motto: “Virtus in infirmitate”. La sua intera esistenza può essere sintetizzata da una sua celebre frase: “Le idee non valgono per quel che rendono, ma per quel che costano”.

Buonasera a tutti, è un onore per me essere qui stasera. Grazie di cuore per la vostra presenza.
Mi presento, sono Cassandra, ho 29 anni, e da 10 anni sono membro dellʼIstituto Buddista Italiano Soka Gakkai.

In questo arco di tempo ho avuto la possibilità di leggere ed approfondire gli scritti, i pensieri e la vita del presidente di questo istituto, una persona chiamata Daisaku Ikeda.

Stasera vorrei parlarvi di lui, della sua umanità, del rispetto e dello spirito di uguaglianza che hanno caratterizzato la sua esistenza.
Daisaku Ikeda è nato a Tokyo il 2 gennaio del 1928 da una famiglia di coltivatori di alghe. Durante la seconda guerra mondiale i suoi quattro fratelli più grandi partirono per la guerra nel Pacifico e il maggiore fu ucciso durante una battaglia in Birmania. Questa esperienza lo ha segnato profondamente e ha alimentato la sua ricerca per la pace e la felicità delle persone, spingendolo a lottare durante tutto il corso della sua esistenza per eliminare le cause fondamentali del con itto umano.

Nel 1947, allʼetà di diciannove anni, incontrò Josei Toda (1900-1958), educatore e secondo presidente dellʼorganizzazione laica buddista Soka Gakkai a cui succedette nel maggio 1960 come terzo presidente della Soka Gakkai. Aveva 32 anni. Sotto la sua leadership, il movimento iniziò unʼera di espansione e rinnovamento, facendo crescere persone in grado di assumersi la responsabilità della promozione della pace, della cultura e dellʼeducazione. Nel 1975 divenne fondatore e primo presidente della Soka Gakkai Internazionale (SGI), diventata ora una rete mondiale che collega circa dodici milioni di membri in 192 paesi e territori. In riconoscimento ai suoi contributi come costruttore di pace ed educatore, ha ricevuto oltre trecento titoli accademici dalle università di circa quaranta paesi e lʼappellativo di Sensei (che in lingua giapponese significa « Maestro »). Nel 1983 ha ricevuto il Premio per la Pace delle Nazioni Unite e nel 2006 il presidente Ciampi lo ha nominato Grande Ufficiale al Merito della Repubblica Italiana.

Nel 1968 promuove la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Cina e Giappone. Ha incontrato molti capi di Stato ed esponenti culturali: Nelson Mandela, Fidel Castro, Michail Gorbacev, Zhou Enlai, al di là di ogni schieramento politico e ideologico, sempre dichiarando di volere «lavorare per la pace contro qualsiasi forma di violenza e di voler contribuire al benessere dell’umanità attraverso la diffusione di una cultura e di una educazione umanistica».

Si è recentemente spento a Shinjuku, quartiere di Tokyo all’età di 95 anni, la notte del 15 novembre 2023.

Per gran parte della sua esistenza, il Maestro Ikeda ha lottato per lʼabolizione delle armi nucleari, considerata una terribile minaccia alla vita dellʼintera famiglia umana e dal 1983, per quaranta anni fino al 2022, ha inviato ogni anno una Proposta di Pace alle Nazioni Unite con allʼinterno possibili soluzioni ai problemi globali del pianeta.

Ikeda sostiene che per arrivare al disarmo nucleare sia necessario un processo che abbia origine da un livello più individuale chiamato disarmo interiore.

Durante gli ultimi anni della seconda guerra mondiale molte persone si opposero apertamente alle armi nucleari. Tra queste numerosi scienziati, filosofi e intellettuali come Josei Toda, che davanti ad una
folla di 50.000 giovani, lʼ8 settembre 1957, pronunciò una storica dichiarazione in cui condannò le armi nucleari come “male assoluto”, chiedendone la completa abolizione. Daisaku Ikeda, scrive a riguardo nella proposta di pace del 2019: “Egli affermava che, per risolvere il problema definitivamente, fosse necessario sradicare i modi di pensare che giustificano gli armamenti nucleari e sui quali si fonda lʼapproccio alla sicurezza: «Voglio denudare e strappare gli artigli che si celano nelle estreme profondità di simili ordigni». Tale dichiarazione si basava sullʼassunto che fosse inammissibile per chiunque minacciare il diritto allʼesistenza e alla sacralità della vita di ogni essere umano. Il suo valore risiede nel riportare il problema delle armi nucleari, messe su un piedistallo in quanto considerate necessarie per la pace e la sicurezza degli Stati, nellʼambito del valore intrinseco della vita, una questione di interesse urgente per tutte le persone.”.

E successivamente aggiunge: “Se vogliamo veramente porre fine allʼera degli armamenti nucleari, dobbiamo lottare contro il vero nemico, che non sono le armi atomiche di per sé, né gli Stati che le possiedono, bensì il modo di pensare che ne permette lʼesistenza: la prontezza ad annientare gli altri quando vengono percepiti come minaccia o impedimento alla realizzazione dei propri scopi.”

Daisaku Ikeda ha riconosciuto lʼurgenza e la necessità per ogni essere umano di vivere un percorso di trasformazione interiore, cruciale allʼinterno del processo di disarmo e come testimoni di pace, anche noi potremmo fare la differenza nella realizzazione di tale processo generando delle onde di pace nel nostro ambiente di vita.

Come possiamo farlo? Iniziando con un dialogo cuore a cuore con ogni persona indipendentemente dallʼorigine sociale, politica o di genere.

Sensei Ikeda ha insegnato la dignità della vita, con lo scopo che ogni persona potesse comprendere il proprio valore nel mondo e il contributo che può portare per un mondo migliore con lo spirito di non lasciare indietro nessuno.

Grazie per lʼascolto.

Lanza Del Vasto (1901-1981) filosofo, poeta, scrittore, artista, pensatore religioso, mistico, è stato l’unico discepolo occidentale di Gandhi; e lo è stato da cattolico. Nel 1936 egli sentì che una nuova guerra mondiale si stava avvicinando e nessuno aveva una risposta al perché gli uomini, sistematicamente, ricascano nell’infliggersi da soli un flagello (perché non è certamente Dio che vuole le guerre). Solo un uomo poteva avere la risposta: Gandhi.
Perciò andò in India e là trovò questa risposta: occorre ristrutturare la società come società di pace, così come allora dimostrava Gandhi che viveva in comunità con una regola nonviolenta. Nel libro Pellegrinaggio alle sorgenti Lanza del Vasto ha raccontato la sua esperienza che lo portò – nel suo “tentativo di diventare cristiano” – a soggiornare nell’ashram di Gandhi e a sviluppare una propria visione della nonviolenza. E se mi si chiedevano “siete cristiano?”, rispondevo: “Sarebbe ben prezioso dire di sì. Tento di esserlo”.


COMUNITA’
Dopo l’incontro con Gandhi (1937-38), la sua vita è stata spesa per la missione ricevuta: fondare comunità gandhiane in Occidente; cioè comunità di vita interreligiosa che subito esprimessero quel mondo nuovo che la pace dovrebbe realizzare, cioè l’approssimazione, per quel che si può e si riesce, di quel Regno di Dio che vorremmo si realizzasse su tutta la Terra.
La regola della sua comunità ha introdotto il voto della corresponsabilità; questo è l’atteggiamento tipico di Cristo (che, Figlio di Dio, si è fatto corresponsabile del peccato strutturale dell’umanità) e dei suoi seguaci, detti appunto cristiani (don Milani l’aveva riproposto con la frase: “I care” = ne sono responsabile). A questo voto si associa naturalmente il voto della nonviolenza (a quando un altro Ordine religioso cattolico che si basi sul voto della Pace, se non della nonviolenza?). “Se la nonviolenza non può fermare la guerra, niente la potrà fermare; l’avvenire è la nonviolenza, o non ci sarà avvenire” (Introduzione alla vita interiore DDB, 2015) E’ tra i primissimi a introdurre la nonviolenza in Europa.


LAVORO
Il primo compito della comunità è il lavoro di autosussistenza, in modo da soddisfare al minimo dei comandamenti, tanto piccolo che (come diceva Tolstoj) i civilizzati del mondo moderno hanno dimenticato: “Lavorerai con il sudore della tua fronte…”; così da compiere il lavoro base di ogni uomo, quello del pane e così rompere la catena degli sfruttamenti reciproci. Ma questa autosussistenza è anche spirituale, per cui il primo voto del lavoro è anche quello del lavoro quo diano su se stessi.
Infine, è il lavoro della Festa; perché “Lavorare vi unisce, ma la Festa vi unisce ancora di più”; perché la Festa è la celebrazione dell’Unità. E lui, poeta, drammaturgo, musico e scultore, ha saputo ben fare festa. Egli ha introdotto la nonviolenza nei rapporti tra le religioni; ma senza confonderla con gli orientalismi o con una mistura di tutte le religioni.


PACE
Poiché la pace è stata intesa anche attraverso un conflitto, la Comunità dell’Arca dagli anni ’55 in poi è stata la prima in Europa a combattere le bombe nucleari e l’equilibrio del terrore che le caratterizza, si è battuto nonviolentemente contro la guerra in Algeria e l’uso sistematico della tortura, ha manifestato per ottenere la legge sulla obiezione di coscienza alle armi e all’ordine di uccidere in accordo con Danilo Dolci, e via via, fino all’ultima lotta con José Bové contro gli OGM in Francia. Anche in Italia ci sono state due comunità per qualche tempo (1980-1995); esse hanno compiuto molte battaglie: dall’antinucleare alla lotta, con don Tonino, contro gli F-16; oppure a Genova 2001).

NELLA CHIESA
Ma l’impegno di base tra la gente comune non gli ha fatto tralasciare di testimoniarla davanti alla struttura ecclesiale cattolica. È stato sempre fedele alla Chiesa. All’annuncio del Concilio, subito si è reso conto della sua grande novità. Prima ha mobilitato i gruppi dei suoi seguaci in Francia per prepararsi alla novità e per farlo con opportune iniziative: digiuni, preghiere, lettere ai padri conciliari e al papa. Durante la prima sessione, ha digiunato ben 40 giorni a sola acqua per chiedere al papa Giovanni XXIII quattro punti sulla pace; di essi tre sono sta accolti dalla Pacem in Terris: obbedienza sì, ma anche obiezione di coscienza;
condanna della corsa agli armamenti; la pace legata alla giustizia. Nella terza sessione del Concilio (o obre 1965) ha organizzato un digiuno internazionale di 20 donne (tra le quali la statunitense Dorothy Day, fondatrice dal movimento Catholic Worker) per 10 giorni a sola acqua, affinché i Padri conciliari si pronunciassero a favore della nonviolenza. La frase suggerita da loro è stata inserita nel n. 78 della Gaudium et Spes: “noi non possiamo non lodare coloro che, rinunciando alla violenza nella rivendicazione dei loro diritti, ricorrono a quei mezzi di difesa che sono, del resto, alla portata anche dei più deboli”.

BIBBIA e VANGELO
Coraggiose le sue interpretazioni (sociali) della Bibbia: dal peccato strutturale, alla non violenza come riforma della religiosità cristiana, alle comunità come ordine dei non violenza). Ha suggerito una lettura del Vangelo basata sulla conversione; lettura così profonda, che a lungo è rimasta ineguagliata. Ma sopra tutto ha saputo vedere sinteticamente la Bibbia attraverso tre momenti cruciali:

  • il peccato originale in Genesi 3, presente anche in Gandhi e nell’induismo. Dalla conoscenza-contemplazione alla conoscenza-calcolo.
  • in Apocalisse 13 la sua crescita nei rapporti sociali come peccato strutuurale (concetto
    apparso solo trent’anni nella enciclica Sollicitudo Rei socialis); travolti dalla scienza e dalla tecnica (tecnocrazia di papa Francesco) da affrontare con sapienza e, se necessario, da gestire coraggiosamente perchè in grado di distruggere (vedi armamenti nucleari, economia finanziaria, crescita e consumo infinito)
  • e infine la conversione da questo Male, sia personale che sociale strutturale; essa è indicata dalle Beatitudini.


Il concetto di conversione anche strutturale fonda la nonviolenza nella teologia cristiana, ma la fonda anche in ogni altra religione che abbia dei testi sacri che invitino alla conversione dai mali dentro l’uomo e nella struttura (ad es. la religione indù).
Lanza del Vasto ha così risposto a una domanda basilare: perché la pace non arriva spontaneamente? Come costruire una società che rifugga dai peccati strutturali? Lanza del Vasto introduce il concetto di quattro sovranità che poi Galtung ha precisato come quattro modelli di sviluppo che fanno i conti : con antropologia (il diavolo, la divisione nel gioco) con l’economia occidentale (possesso e posseduti), con la politica occidentale (potere e giustizia) e con la politica internazionale (i due blocchi: fatalità o liberazione).


LANZA DEL VASTO
L’autentica rivoluzione, pacificatrice e definitiva, è quella che ogni uomo deve fare su se stesso per mettere a tacere la propria violenza.
Il Vangelo è la Magna Carta della nonviolenza occidentale. La Non-Violenza è il contrario della giustificazione dei cattivi mezzi in base al fine buono.»
Le due maggiori scoperte del secolo sono la non-violenza e la bomba atomica. Se la Non-Violenza non può fermare la guerra, nulla potrà fermarla. Quindi l’avvenire è alla Non-Violenza, oppure non c’è avvenire.

Cheikh Ahmadou Bamba, il “servitore del Profeta Mouhammad SWS”

Buonasera a tutti,
mi chiamo Mbacke Mbene, sono senegalo-italiana. Sono qui davanti a voi oggi, come testimone di
Cheikh Ahmadou Bamba, il fondatore della confraternità sufica del Mouridismo, in Senegal alla fine del XIX secolo.

Perché io e perché una testimonianza su Cheikh Ahmadou Bamba? sono qui oggi come testimone
dello Cheikh mouride per tre ragioni:

  • perché come lui ritengo che sia necessario mettere in pratica le scrittura islamiche percorrendo la via del perfezionamento spirituale del sufismo per arrivare ad Allah Soubhanawattalah;
  • perché ho la benedizione di essere stata scelta da lui come suo “talibe”, discepolo;
  • e infine, poiché poco rilevante secondo me rispetto a tutto il resto, porto io una testimonianza su di lui perché sono una sua nipote, un Mbacké Mbacke, come direbbe un qualsiasi senegalese.

Grazie ad Allah Soubhanawattalah quindi, se Cheikh Ahmadou Bamba mi ha scelto, io scelgo lui per la sua grande devozione ad Allah, per la sua pietà e il suo grande “khitma”, ossia servizio verso il Profeta Mouhammad SWS che gli ha fatto guadagnare l’etichetta di Khadimoul Rassoulahi, il “servitore del Profeta appunto”.

Tramite il cosidetto “jihad Akbar”, “grande sforzo”, di Cheikh Ahmadou Bamba e dei suoi mouride,
si vuole far comprendere che l’Islam è prima di tutto una religione pacifica e tollerante, prima di
essere strumentalizzata per qualsiasi altro fine.

Lo Cheikh nasce nel 1853. Entrambi i suoi genitori discendevano da una famiglia di religiosi e si
consacravano esclusivamente ad esso.

Il contesto in qui nasce, cresce e divulga il suo messaggio, fu quella del Senegal sotto il dominio francese, che ormai allora controllava molti territori dell’Africa dell’ovest attuandovi una “politica assimilazionista”, che rispondeva a quell’idea di eurocentrismo e di superiorità culturale per cui: “i paesi colonizzati dovevano essere semplici appendici della grandi potenze che li avevano conquistati.”

La società senegalese del suo tempo era caratterizzata invece, da diseguaglianze sociali causate dalla presenza delle caste e infine l’insegnamento religioso era più teorico che pratico.

Il messaggio di pace che Cheikh Ahmadou Bamba ci insegna attraverso il Mouridismo come percorso
di educazione dell’anima ,è prima di tutto volta trovare la pace interiore, poiché il Mouridoullahi, colui che aspira ad arrivare ad Allah, deve educare la sua anima, mettendo in pratica ovviamente ciò che Allah Soubhanawattalah aveva trasmesso al nostro caro Profeta Mouhammad. Come lui, altri maestri sufi, si proposero di “rivivificare” l’Islam, cioè mettere appunto in pratica gli insegnamenti islamici adattandolo ai contesti culturali di appartenenza; ma la novità qui sta nel fatto che tale messaggio fu alla base della prima tariqa, ossia confraternità, sufica che viene fondata nell’Africa subsahariana, proprio in quel contesto in cui il colone intendeva indebolire la cultura locale;

Il percorso di perfezionamento proposto fu vissuta in prima persona dal maestro dal 1895 al 1927 e sebbene in quei anni lo Cheikh fosse stato esiliato dai francesi, prima in Gabon e poi in Mauritania, e poi sottoposto in residenza sorvegliata fino al 1927, cioè alla sua morte, lontano dalla sua famiglia e dalla sua città, con l’accusa di fomentare la lotta armata, egli portò avanti la propria aspirazione a diventare il Servitore del Profeta senza mai ricorrere alla violenza.

Il messaggio di pace e di non violenza di Cheikh Ahmadou Bamba scaturisce quindi dalla sua
missione e i suoi Khassida, le sue poesie, ci permettono di testimoniare che sì egli fu un jihadista come tutti i mouride; ma fu un jihadista pacifico. La domanda che sorge spontanea è come jihad e pace o non violenza o ancora tolleranza possano essere accostate? La risposta è nell’etimologia della parola jihad, che difatti significa semplicemente lotta, sforzo e più precisamente fissabili Allah, cioè nel sentiero di Allah. Lo Cheikh fu in altre parole un pacifista, un non violento che compì un jihad, per compiacere ad Allah Soubhanawattalah ed essere a lui vicino combattendo contro i veri nemici del credente: Shaytan, il diavolo, ma soprattutto contro il se, il cosidetto nafs, la propria anima e le proprie passioni. Tale non violenza non può prescindere infine, dal concetto khidma, ovvero servizio nei confronti di Dio ,del Profeta e quindi anche delle creature; e mettersi al servizio delle creature vuol dire non nuocere, avere misericordia per loro poiché con le parole del Maestro:. “Rispetta in tutte le creature i Diritti di DIO, per amore verso il loro Creatore. Ebbene ” fu tale misericordia che porto lo Cheikh a perdonare i suoi nemici per amore dell’Altissimo e del Suo Profeta.

Sono Omar Boulaouz,
sono nato in Marocco – dove ho studiato sociologia – sono di religione musulmana e vivo in Italia da 3 anni. In questo momento storico così difficile, segnato da conflitti e guerre, desidero ricordare il Califfo Omar Ibn Abdul Aziz come simbolo di pace universale.

Il Califfo Omar Ibn Abdul Aziz è vissuto nel Settimo Secolo dopo Cristo. Il titolo di “Califfo” indicava chi guidava la comunità musulmana dopo la morte del profeta Maometto. Questa figura deteneva la massima autorità politica, militare, amministrativa ed economica, oltre a un ruolo spirituale, supportato da ministri, esperti (ulamaa) e giudici.

Omar Ibn Abdul Aziz governò in un periodo in cui lo stato islamico si estendeva dai confini della Cina al sud della Spagna. Il suo governo, durato poco più di due anni, portò grandi benefici alla popolazione così che ancora oggi lo si ricorda per aver rinnovato i valori e gli insegnamenti del profeta. È tuttora considerato un modello per i governanti.

Il suo messaggio di pace e giustizia è chiaro: la pace non si limita al disarmo e all’evitare la guerra, ma si estende all’amore e alla misericordia, riflettendosi su tutto il creato. Nonostante il breve periodo al potere, Omar realizzò successi considerati da storici e studiosi come miracoli senza precedenti.

In un’epoca segnata da difficoltà politiche, economiche e ingiustizie sociali, il Califfo Omar affrontò questi problemi con riforme concrete:

  • l’eliminazione della corruzione
  • la ristrutturazione dell’economia secondo i principi islamici di equità nella
    distribuzione delle ricchezze
  • creò una classe dirigente consapevole delle proprie responsabilità e portò stabilità e sviluppo in ambito economico, agricolo e commerciale.

Applicò rigorosamente i principi coranici, iniziando con se stesso e la propria famiglia. Ad esempio, utilizzava olio privato per la sua lampada personale e legna privata per scaldare l’acqua, evitando di usare le risorse pubbliche. Recuperò i beni sottratti ingiustamente dallo Stato e li restituì alla comunità. Si rifiutò di vivere a palazzo e fu venerato dai fedeli musulmani sia sciiti che sunniti.

La giustizia era il suo motto, ripetuto e applicato in ogni azione. Si racconta che un giorno sua moglie Fatima lo trovò piangere. Preoccupata, gli chiese cosa fosse successo, e lui rispose: “O Fatima, guarda in quale situazione mi trovo! Dio mi chiederà conto di ogni persona bisognosa, vicina o lontana, grande o piccina, e di cosa ho fatto per aiutarla”.

Fu talmente onesto e rigoroso che, dopo due anni di governo, gli esattori delle tasse cercavano beneficiari per distribuire i fondi raccolti, ma avanzavano sempre soldi. Omar ordinò di pagare i debiti delle persone, far sposare i celibi, e persino comprare cereali da spargere sui monti per nutrire gli uccelli, affinché nessuno potesse dire che nello stato islamico non si trovasse cibo.

Permettetemi di concludere con un versetto del Corano che riassume il suo messaggio:
“Non c’è essere che si muova sulla terra o uccello che voli con le sue ali, che non appartenga a una comunità esattamente come voi. Non abbiamo omesso nulla nel
Libro. Poi tutti saranno ricondotti verso il loro Signore” (Corano, Surat Al An’âm, Versetto 38).

Grazie.

Pastore valdese Tullio Vinay

Buonasera a tutte e tutti voi. Sono Leonardo Magrì e questa sera voglio presentarvi un personaggio che ha dedicato la sua vita per la realizzazione di un sogno che per molti è un’utopia, ma che per lui e per quanti, con lui, hanno condiviso il sogno evangelico, era ed è una realtà: l’utopia del mondo nuovo. Vi parlerò di un uomo straordinario che però ha fatto anche dell’umiltà un elemento che l’ha contraddistinto. Vi parlerò di un mio collega che mi ha preceduto nel tempo, il pastore valdese Tullio Vinay.

Tullio è nato a La Spezia nel 1909 ed è morto nel 1996 a Roma all’età di 87 anni. Carattere forte, determinato a perseguire i propri ideali a qualunque costo, ma al tempo stesso era allegro, pieno di vita, pronto sempre a scherzare e con un garbo particolare nel relazionarsi con gli altri.

Dal 1934 Tullio Vinay era il giovane pastore della chiesa valdese di Firenze; dove portò una piccola rivoluzione anche attraverso una nuova predicazione che esortava alla ricerca di libertà e giustizia.”

Le persecuzioni razziali diventano una atroce realtà che si diffonde sempre più partendo dalla Germania. Qui in Italia si sapeva ben poco circa ciò che accadeva in Germania, ma Tullio già dal 1933 ne era informato grazie a suo fratello, Valdo, anche lui pastore e poi professore presso la Facoltà Valdese di Teologia, che conoscendo il tedesco era in contatto con membri della Chiesa Confessante tedesca che si opponeva al totalitarismo del nazismo.

Le relazioni dell’epoca ci riportano un costante interesse e una crescente preoccupazione da parte di Tullio Vinay nei confronti della situazione che molti ipotizzavano per gli ebrei e questo suo interesse si concretizzava nella costante presenza di preghiere per gli ebrei nel corso dei culti domenicali: «Con tutta la presenza di cui sono capace, tutte le domeniche, fino alla noia, pregavo in chiesa per gli ebrei, chiedevo al Signore di salvarli dai loro persecutori e la chiesa
aveva poco piacere per questa preghiera». Tullio Vinay ha dovuto fare i conti con un aspetto che ha caratterizzato la vita di tanti, troppi uomini e donne in quel periodo: la paura. La paura delle conseguenze che potevano derivare dal prendere una posizione chiara e, soprattutto, in opposizione, rispetto alle decisioni assunte da chi aveva il potere e questo potere lo manteneva anche con la violenza e l’annullamento della libertà altrui.

Tullio ha messo a repentaglio la sua vita e quella della sua famiglia per aiutare quanti più ebrei ha potuto. Ha fatto costruire una stanza nascosta nell’intercapedine presente tra il soffitto delle sale delle attività della chiesa e il pavimento del suo alloggio. Si poteva accedere a questa stanza attraverso una botola collocata nella camera dei suoi figli. In quella stanza sono stati accolti decine e decine di ebrei.

Quasi quarant’anni dopo, nel settembre del 1981, lo Stato d’Israele conferì a Tullio Vinay il titolo di “Giusto delle Nazioni” per l’opera di soccorso prestata agli ebrei durante le persecuzioni razziali in Italia. Nell’aprile del 1982 gli venne conferita la “Medaglia dei Giusti”.

L’azione di testimonianza a favore della pace da parte di Tullio Vinay proseguì nel corso degli anni in modi diversi. Volle costruire un luogo dove uomini e donne di diverse nazioni e diverse fedi potessero incontrarsi e confrontarsi e attraverso la reciproca conoscenza giungere al riconoscersi come fratelli e sorelle. Quel luogo è stato costruito a Prali, paese delle Valli Valdesi in Piemonte, inaugurato il 12 agosto del 1951 e, come voluto da Tullio, si chiama Agàpe, amore.

Dal Piemonte alla Sicilia, anzi, al centro della Sicilia, a Riesi, paese dominato dalla povertà e dalla mafia. Anche qui Tullio si impegna non solo per la pace, ma anche per quella giustizia sociale negata. Anche qui sarà il promotore di un Centro: il “Servizio Cristiano”, che ha fornito agli abitanti della zona gli strumenti per una scolarizzazione alla quale tutte e tutti potevano accedere e ha contribuito a formare una cultura di opposizione alla mafia.

Nel 1967 il Comitato Internazionale per la liberazione dei Prigionieri politici del Vietnam gli chiese di fare un viaggio di inchiesta clandestina con un sacerdote cattolico grazie al quale ha avuto la possibilità di godere di una certa libertà di movimento. Anche questo viaggio non è stato privo di rischi. Vinay ha avuto modo di raccogliere ampio materiale sulle intollerabili condizioni nelle quali erano tenuti i prigionieri politici. Al suo rientro ha iniziato una scrupolosa campagna di informazione e di denuncia non solo nelle chiese, ma anche nelle sedi politiche italiane e mondiali.

Eletto in Parlamento nelle elezioni del 1976 e del 1980 come indipendente nelle liste del PCI. I suoi interventi al Senato evidenziavano sempre quella che per lui è stata una priorità: l’impegno per la pace, la giustizia e la libertà.

Ora non ho proprio più tempo, ma voglio concludere citando una frase che non è stata pronunciata da Tullio, ma per Tullio. 4 Settembre 1996, Chiesa Valdese di Piazza Cavour a Roma, il predicatore è il pastore Paolo Ricca e davanti a lui si trova la bara in cui è stato deposto il corpo di Tullio Vinay: “Caro Tullio che bella eredità ci hai lasciato: l’utopia dell’amore, l’utopia che non è un’utopia, perché, come dicevi sempre, l’utopia non è quello che non c’è, ma quello che non c’è ancora.”

Ciao, sono Lucrezia e sono un’operatrice sociale. Ho scelto Bartolomeu Valeriu Anania come esempio di dignità, di onestà e di forza morale e, più di tutto, per l’insegnamento che il perdono può essere davvero salvifico.

Valerio Anania è un esempio di come, anche avendo una vita segnata dalle difficoltà, si possa non rinunciare mai ai propri principi.

Anania nasce nel 1921 a Glavile, in Romania, dove studia teologia e cultura. Cresce negli anni interbellici e si forma durante la Seconda Guerra Mondiale.

In Romania collabora con riviste teologiche e pubblica molte opere. Viaggia come missionario, scrive testi e poesie e diventa un punto di riferimento culturale e religioso.

In qualità di arcivescovo, per esempio, lotta affinché l’attività pastorale del Clero sia più dinamica, promuovendo il suo coinvolgimento nelle azioni di assistenza sociale, e piú capace di rispondere alle esigenze della società e in particolare dei giovani.
Coltiva il desiderio di ristabilire il legame tra la Chiesa, la cultura e la società, che sia meno distante dal popolo. Interessante a questo proposito l’edizione della Bibbia da lui commentata perché la stesura del testo è in lingua romena attuale e perché utilizza oltre 8000 note sussidiarie per offrire al lettore una comprensione maggiore del testo.

Durante gli anni universitari, Bartolomeu era stato il leader del movimento studentesco anticomunista ed era stato accusato di aver collaborato con i legionari. Per questo motivo viene espulso dall’Università, e, anni dopo, nel 1958 viene condannato a 25 anni di lavori forzati per presunte “istigazioni” contro l’ordine
sociale.

Trascorre sei anni in carcere in Romania, imprigionato ingiustamente e per illazioni, e lì viene sottoposto a torture fisiche e psicologiche ed è costretto a vivere in condizioni disumane.

Durante la prigionia, Anania si trova sull’orlo della disperazione, tanto da pensare di togliersi la vista, pensando che l’umanità non meriti neanche di essere guardata.

Anania resiste grazie alla sua fede e alla forza interiore, scrivendo mentalmente – visto che era stato privato di carta e penna – poesie e opere teatrali. Quando esce dal carcere ha in mente 12000 versi, che raccoglierà poi in uno scritto.

Le carceri comuniste erano talmente atroci, un teatro di tale sofferenza e distruzione che, quando le persone intellettuali, di grande cultura e fede, che vi erano state ingiustamente imprigionate, riuscirono a uscirne, divennero note per aver partorito i santi. Nonostante la miseria, la paura e le umiliazioni, è stato un periodo di grande forgiatura spirituale.

L’impegno mentale, la fede in Dio e la speranza che un giorno sarebbe stato liberato sono stati i cardini della sua resistenza.

A chi gli chiedeva come avesse fatto a sopravvivere alle torture, lui rispondeva: “Ho sopportato per i miei peccati. Guardavo i miei carnefici con pietà.
Tutte le volte che ero portato in cella, spinto nella camera di tortura, per non permettere all’odio di istallarsi nel mio cuore pregavo per loro.”

Questa è la dimostrazione che, nonostante le atrocità subite, Anania non nutrì rancore, ma offrì sempre il perdono sincero. La sua fede gli ha permesso di resistere e di vivere senza mai scendere a compromessi.

Alla fine della sua vita, Anania lasciò un’eredità di opere teologiche e letterarie, insegnando a vivere con un cuore aperto al perdono.

Diceva infatti: ”Ho imparato ad usare l’arma della pazienza e del perdono. Senza queste armi sarei stato pazzo, un peso in più per i medici psichiatri. Davanti alla pazienza e al perdono tutto impallidisce e lentamente si deposita al suolo. La pazienza e il perdono aiutano l’uomo ad arrivare alla vecchiaia senza degradamento morale Molti temono il degradamento fisico, io ho temuto sempre il degradamento morale.”

Una donna sul confine: Etty Hillesum

Buona sera a tutte e a tutti. Mi chiamo Elena. Mi hanno sempre affascinato e coinvolta figure, specie se donne, che imprimono nella loro e nella altrui vita segni indelebili.

Vi presenterò una donna straordinaria. Un’ebrea. Esther Hillesum, per tutti Etty. E’ la giovane testimone della comunità ebraica, emblema del cammino di una donna che ha voluto “pensare con il cuore”, ricercare il divino che è in noi, da conoscere e liberare.

Nasce nel 1914 in Olanda in una famiglia della borghesia ebraica. Etty aveva una personalità ricca e sfaccettata con una straordinaria vita interiore.

Studia giurisprudenza e lingue slave. Tiene seminari
all’Università popolare. Da subito si impegna attivamente contro il regime nazista. Dal marzo 1941 inizia a scrivere un diario nel quale registra puntualmente la persecuzione ebraica, la guerra, la sua
personale visione del mondo, ma soprattutto un originale percorso introspettivo di cura.

Si avvicina a Dio, portandolo e ospitandolo teneramente nel suo cuore fino agli ultimi istanti della sua vita. Muore ad Auschwitz nel novembre del 1943, a soli 29 anni.

Cosa rende straordinaria Etty? Seppur in campo di
concentramento rifiuta ogni tipo di odio considerato una divorante malattia dell’anima. Conforta, con il suo essere e la sua presenza delicata ed empatica, uomini e donne che incontra nel suo cammino, soprattutto nel campo di transito di Westerbork in Olanda.

Esorta ad essere una “generazione vitale”, capace di
riconoscere nella vita tutto ciò che essa è capace di offrire. Perché, parola di Etty: “la vita è bella”. Questo pensiero è una originale forma di resistenza esistenziale, che assume un alto valore simbolico, ampliando e superando le forme tradizionali di resistenza alla dittatura e al nazismo.

Non pensò mai a salvarsi. Pur avendo possibilità di fuggire, sceglie volontariamente di condividere fino in fondo la sorte del popolo ebraico seguendolo nei campo di concentramento.

Era sua convinzione, infatti, che non abbia alcun senso cercare scappatoie o combattere per la mera autoconservazione. Ma che si debba, piuttosto, “rimanere con gli altri e cercare di essere per loro
quel che ancora siamo in grado di essere”, donne e uomini, umanità.

Etty sostiene che per interrompere la catena del male bisogna lavorare su se stessi, sviluppare la propria interiorità, saper trasformare i sentimenti negativi in qualcosa di diverso, sapersi liberare dall’ostilità contro il prossimo, dando voce a “quel pezzetto di eternità che ci portiamo dentro”.

La pace futura potrà essere costruita, secondo Etty, solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso. È l’alternativa forte e luminosa alla guerra e al male, la base sulla quale è possibile ricominciare daccapo. Significa che la pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso, superando l’odio e trasformandolo in amore.

Alcune proposte di testi tutti scelti dal Diario: “Il marciume che c’è negli altri c’è anche in noi, continuavo a predicare; e non vedo nessun’altra soluzione, veramente nessun’altra, che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappar via il nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver fatto prima la nostra parte dentro di noi. È l’unica lezione di questa guerra: dobbiamo cercare in noi stessi, non
altrove”

(giovedì pomeriggio, 19 febbraio 1942, ore due)

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